“Il mito del nesso reato-pena” di Nicola Valentino

Durante un incontro formativo sul tema dell’ergastolo, svoltosi nel mese di marzo, ed organizzato dall’Associazione Liberarsi, ho posto un quesito a tutto il gruppo dei formanti, sul quale vale la pena di soffermarsi per ora brevemente. Anche perché su questo quesito poggia uno dei miti su cui si regge l’esistenza dell’ergastolo. Il mito che la pena a vita di una persona, sia dovuta al fatto che quella persona abbia commesso un fatto-reato giudicato dalla legge di gravità capitale. A ben vedere questa convinzione non ha un fondamento.

Gli ergastolani in Italia negli ultimi sedici anni sono quasi quadruplicati, l’incidenza percentuale degli ergastolani sul totale dei condannati a pena definitiva tra il 1998 ed il 2008 è più che raddoppiata passando dal 2,5 al 5.291.

La ragione di questo ergastolo di massa (attualmente gli ergastolani sono circa 1500), ci viene spiegata dalla riflessione di un recluso che vive attualmente sulla propria pelle, con l’ergastolo ostativo, lo sconcertante squilibrio fra ciò che viene imputato materialmente e la condanna comminata.

Perché – si chiede questo ergastolano – persone come me che non hanno ucciso nessuno, sono state condannate all’ergastolo?” “Per un solo omicidio sono state condannate all’ergastolo 20/30 persone, una folle percentuale, dovuta al fatto che l’ergastolo viene dato sia agli esecutori, sia a chi si è reso responsabile di ruoli che in altre circostanze sarebbero puniti con pochi anni di prigione”. Quindi, attraverso il reato associativo l’ergastolo viene dato non solo a chi commette il fatto ma anche a decine di persone che quel fatto non lo hanno materialmente commesso.

Ora può accadere ed accade, che chi si è preso l’ergastolo perché ha commesso materialmente il fatto, decida di stare al gioco di scambio che gli viene proposto dagli organi inquirenti e quindi, decidendo di diventare collaboratore di giustizia, cioè mettendo qualcun altro in galera al suo posto, non sconti l’ergastolo e ottenga protezione, al contrario, chi ha solo preso l’ergastolo per un fatto-reato associativo, non avendo nulla da dire o non volendo mettere altri al suo posto, si trovi a scontare una pena capitale. Ma, in relazione al dispositivo che premia la collaborazione, anche chi avrebbe commesso un omicidio, non starebbe scontano l’ergastolo per il fatto in sé, ma semplicemente perché non è entrato nella logica di scambio con gli organi inquirenti. Non è all’ergastolo per ciò che ha fatto, ma per la sua posizione, per quella pericolosità sociale che gli viene attribuita per non aver partecipato allo scambio della propria libertà, con quella altrui. Il riferimento della pena è quindi decisamente spostato dal fatto-reato all’identità della persona. O meglio, all’identità che l’istituzione attribuisce al condannato, in base alla sua non collaborazione. Può accadere anche ed accade, seguendo il filo narrativo della testimonianza dalla quale sono partito, che una persona che ha preso l’ergastolo unicamente all’interno del quadro associativo, si ritrovi per anni in un regime di 41 bis, sottoposta cioè all’isolamento e ad una quotidiana torsione psicofisica, non in riferimento a ciò che ha fatto o a eventuali comportamenti indisciplinati in carcere, ma per lo stigma di pericolosità sociale che gli viene attribuito e con lo scopo di esercitare una torsione sulla sua identità, per spingerla alla collaborazione. Che anche questa forma reclusiva del tipo della tortura, non abbia nulla a che vedere con fatti certamente attribuiti alla persona, ma con la presunta pericolosità sociale del recluso, è attestato dal fatto che si può finire in regime di 41bis anche quando si è in attesa di giudizio.

Voglio chiudere questa riflessione incompleta sullo sganciamento del reato dalla pena con un riferimento storico alla nascita del carcere come forma di pena2. In sostanza questo sganciamento starebbe nel codice genetico del sistema penitenziario. Prima che il carcere entrasse a pieno titolo nel sistema penale esso veniva comminato in base ad un dispositivo ben studiato da Michel Foucault nella Francia del XVIII secolo3. La lettre de cachet (letteralmente una lettera con sigillo reale) era il nome di questo dispositivo. Si trattava di uno strumento di punizione che veniva emesso come ordine del Re, ma la maggioranza delle lettres de cachet erano in realtà sollecitate da svariati gruppi sociali: gruppi familiari, religiosi, padronali…. per stigmatizzare condotte immorali, pratiche religiose eretiche, conflitti di lavoro. Le lettres de cachet includevano una narrazione in forma di supplica o di semplice denuncia, che il gruppo inviava al Re. Michel Foucault si imbatte in questi “racconti brevi” sfogliando un registro di internamento redatto nei primi del ‘700 ed osserva come esse non fossero altro che narrazioni mostrificanti rivolte contro individui le cui vite venivano incenerite con frasi come “sedizioso”, “mostro di abominio”, “capace dei peggiori crimini”… insomma frasi generiche, che comportavano però l’imprigionamento e la reclusione a tempo indeterminato. Il mal capitato doveva rimanervi “fino a nuovo ordine”, ed il nuovo ordine scattava solo quando si considerava in qualche modo che l’individuo imprigionato fosse sceso a patti, si fosse ravveduto. Il carcere non era ancora entrato a pieno titolo nei sistemi penali, ma attraverso le lettres de cachet si affermava una visione della penalità che non era in risposta ad una precisa infrazione, bensì in relazione al presunto pericolo che alcune vite “scellerate”, rappresentavano per specifici gruppi sociali.

Il carcere in sostanza comincia a farsi largo nei sistemi penali con forti somiglianze ad un ergastolo ed in modo scollegato da una infrazione specifica.

Questi brevi spunti sul mito del nesso reato-pena, spingono ad approfondire l’impegno verso una società libera, quanto prima, dalla pena capitale dell’ergastolo. Inoltre essi potrebbero sollecitare, alcuni volenterosi dell’immaginario, verso una riflessione, già presente in Europa, sulla storicità del carcere e del sistema penale.

Nicola Valentino

1 Stefano Anastasia, Franco Corleone, a cura di, Contro l’ergastolo Ediesse, roma 2009

2 Renato Curcio, Nicola Valentino, Marita Prette, La socioanalisi narrativa, Sensibili alle foglie, 2012

3 Michel Foucault, la vita degli uomini infami, il mulino 2009