Ergastolo di Santo Stefano, giugno 2011: il mio primo fiore ai 47 corpi senza nome

Siamo approdati sull’isola di Santo Stefano con un piccolo gommone.

Foto di Valentina Perniciaro
_Il carcere si avvicina_

Scesi al volo, il piede si aggrappa subito ad un suolo minuscolo e spigoloso, uno scoglio meraviglioso, intriso però in ogni suo sasso di dolore.

L’ergastolo di Santo Stefano è il primo vero carcere nato sul suolo italiano; ha sentito sbattere le sue chiuse ferrose la prima volta nel 1797 per lunghi interminabili anni, fino al nostro 1965. Non un vecchio convento o castello, ma una struttura progettata per la detenzione e il controllo.  Salvatore non si può definire un custode, è più l’anima di quell’isola.
Sono le sue mani a sistemare il poco di sistemabile, ad aprire e chiudere i cancelli ai curiosi, a chi su quel posto scrive e ricerca, a chi invece come noi voleva portare un fiore a quelle tombe senza nome, con la speranza e l’impegno preso di provare a darglielo al più presto.

47 tombe ci sono, e grazie al lavoro decennale di Salvatore ci sono ora anche 47 croci di legno, avvolte però dalle erbacce e dalla vegetazione che su quello scoglio cresce selvaggia come se mano d’uomo non ci fosse quasi mai passata.
E invece, mani di uomini in catene, mani di uomini legati l’uno all’altro, mani di uomini che con gli stenti della fame e della sete che ha quasi sempre caratterizzato la prigionia isolana hanno vissuto quella terra stupefacente ma ostile. Piccola e capace di avere un concentrato di vissuto e di dolore che pochi altri luoghi hanno.

Foto di Valentina Perniciaro
Carcere di Santo Stefano: le celle

Bisogna andare a visitare quel luogo, bisogna vedere quell’abbozzo di Panopticon (la costruzione del carcere è precedente di qualche anno al progetto di Bentham) e soprattutto quel cimitero per capire, per sentire un po’ sulla propria pelle cosa significa privazione della libertà personale, cosa significa detenzione e soprattutto cosa significa ERGASTOLO.

Quel cimitero racchiude in se una solitudine mai sentita prima d’ora.
Quei corpi di cui la storia ha deciso di non aver memoria di un nome (c’è anche Gaetano Bresci tra quei corpi) hanno vissuto il proprio funerale molte volte prima che il loro corpo vi fosse seppellito, da altre mani prigioniere.

Detenuti che tagliano la legna, detenuti che chiodo su chiodo costruiscono una bara.

Foto di Valentina Perniciaro _Il vero FINE PENA MAI, il cimitero degli ergastolani_

Detenuti che preparano quel corpo da chiudere nel legno, che dalla terra libera arriva con un piccolo battello.
Detenuti, uomini prigionieri, che accompagnano sotto quel sole e su quella terra nera il proprio compagno sulla collina, dove il grande mare avvolge tutto.

Ci sono alcune immagini di quei funerale, che Salvatore custodisce amorevolmente in un album ingiallito… nel guardarle, nel vederli tutti vestiti uguali che si inginocchiano per salutare un altro vestito come loro, che s’è liberato prima di quella condanna terrena che aveva velleità di eternità, ho pensato che quegli uomini hanno vissuto chissà quante volte il loro funerale.Io non so dove morirò, non so dove come e chi parteciperà ai miei funerali.
Non ho idea di come verrà riposto il mio corpo, di cosa verrà detto, di quale viale sarà percorso se ne sarà percorso uno.
A loro bastava guardarsi intorno, bastava tenere gli occhi ben aperti per assistere al proprio funerale, per veder costruire una bara uguale identica a quella che poi sarà costruita per loro stessi: chissà che aria c’era in quel blu che lì tutto circonda, nel momento in cui la terra cadeva sul legno, col canto dei tanti gabbiani e i colori incredibilmente vivi che sparano tutt’intorno.

Vorrei raccontarvi molte cose di quel posto…ci sarà modo, ancora devo digerirne i racconti e i sussulti del sangue.
di Valentina Perniciaro

un funerale, nel carcere degli ergastolani di Santo Stefano (Archivio storico)

Resoconto del viaggio al cimitero degli ergastolani nell’isola di S. Stefano -2011-

24 giugno 2011 di Nicola Valentino

Il 24 giugno siamo partiti in quattro verso l’isola di Ventotene. Oltre me, che portavo anche il sostegno all’iniziativa di Sensibili alle foglie, era presente Giuliano Capecchi dell’associazione Liberarsi, Rossella Biscotti (artista), Valentina Perniciaro (blogger: baruda.net). Giuliano era anche in sciopero della fame, in solidarietà con i reclusi di molte carceri italiane anch’essi in sciopero nei giorni tra il 24 ed il 26, in concomitanza con la giornata mondiale contro la tortura indetta dall’ONU. Uno sciopero per affermare che dentro la parola tortura vanno incluse: la condizione attuale delle carceri italiane, l’ergastolo ed il regime di isolamento detentivo del 41 bis.

Foto di Valentina Perniciaro _nel carcere di Santo Stefano_

Oltre me che ho trascorso circa 28 anni all’ergastolo, ognuno portava nel viaggio anche la sua esperienza di incontro con la reclusione a vita, una conoscenza, soprattutto per Giuliano e Valentina, segnata dal rapporto diretto con persone, attualmente o in passato, recluse all’ergastolo.
Lo scopo del viaggio: portare dei fiori sulle 47 tombe senza nome del cimitero degli ergastolani che si trovasull’isolotto di Santo Stefano, a pochi metri dal vecchio ergastolo, funzionante dal 1795 al 1965. Vedere e documentare un luogo emblematico per comprendere ciò che è l’ergastolo oggi, soprattutto l’ergastolo che riguarda oltre mille degli attuali 1500 ergastolani e che non prevede possibilità di uscita ma solo la morte in carcere. In questi giorni, nel carcere di Spoleto si è impiccato Nazareno, un uomo condannato all’ergastolo, da 22 anni in carcere, che si è messo una corda al collo due giorni dopo aver saputo che il suo ergastolo era di quelli che non prevedono la richiesta dei benefici penitenziari e che quindi sarebbe morto lentamente in carcere proprio come i reclusi di Santo Stefano.

Abbiamo portato in questo viaggio anche il sostegno di reclusi e recluse di oltre 50 carceri, e decine di persone libere che non si sono potute mettere in cammino ci hanno chiesto di deporre dei fiori anche per loro.   Erano stati informati del nostro arrivo sia il direttore dell’ente parco di Ventotene e Santo Stefano, che ha autorizzato di buon grado la visita ai luoghi del carcere, sia Salvatore dell’associazione che si occupa di guidare le persone nel vecchio carcere, in gran parte pericolante, e nei luoghi limitrofi, tra cui il cimitero.
Quando siamo approdati a Ventotene il primo passo è stato recarci dalla fioraia per comperare delle piantine di gerani da interrare nei pressi delle tombe. La fioraia, incuriosita e sorpresa per questa nostra missione, ci ha raccontato che fino a qualche anno fa durante la festa della santa patrona dell’isola, alcuni ventotenesi, insieme al prete della parrocchia locale, si recavano a portare fiori e preghiere al cimitero degli ergastolani.

Foto di Valentina Perniciaro
_Il cimitero degli ergastolani, al nostro arrivo, nel giugno 2011_

Con in mano le piantine, attraversando la piazza, ci siamo fermati nella libreria dell’isola che si cura molto di documentare la storia e la vita dei reclusi che sono stati detenuti a Santo Stefano. Ci ha ricevuti anche il direttore dell’ente parco apprezzando la nostra attenzione per quel cimitero, invitandoci a ritornare ogni qual volta l’avessimo voluto, anche perché sembra esserci un attenzione sociale nell’isola alla valorizzazione storica e culturale di Santo Stefano, innanzitutto attraverso il recupero degli archivi del carcere.

Con Salvatore, la guida, abbiamo cercato una barca che ci trasbordasse sull’isolotto. Il barcaiolo ha apprezzato lo scopo non turistico del nostro viaggio, facendoci uno sconto sul costo della traversata. L’approdo non è facile e la salita verso il carcere faticosa, ci muoveva verso l’alto la narrazione di Salvatore, che ha cominciato a popolare di uomini e di eventi un luogo che all’apparenza si presenta solo come un sito di archeologia penitenziaria, ma che attraverso il suo racconto si vivifica e mostra una storia sociale ed istituzionale ancora drammaticamente attuale. Salvatore e la sua associazione hanno raccolto con molta cura una efficace documentazione. Una fotografia in particolare ha guidato il nostro immaginario nel cammino verso il cimitero: la foto ritrae il funerale di un ergastolano. Si vedono i reclusi, che hanno accompagnato in corteo funebre il loro compagno morto, fermi fra le croci bianche. Assistono alla tumulazione della bara. Una bara di legno che loro stessi hanno costruito nella falegnameria del carcere.

Come ha osservato Valentina: “Io non so dove morirò, non so dove come e chi parteciperà ai miei funerali. Non ho idea di come verrà riposto il mio corpo, di cosa verrà detto, di quale viale sarà percorso se ne sarà percorso uno. A loro bastava guardarsi intorno, bastava tenere gli occhi ben aperti per assistere al proprio funerale, per veder costruire una bara uguale identica a quella che poi sarebbe stata costruita per loro stessi”.

Abbiamo scelto due tombe per interrare le piantine di gerani e deposto fiori di campo sulle altre 45 tombe.
Ma a chi stavamo offrendo un fiore? Per chi ho pregato? Sono solo 47 i corpi sepolti oppure, considerati i tre secoli di vita del carcere quel cimitero è anche da considerarsi come una fossa comune? Ma se prima c’erano delle croci bianche di pietra come si vedono nella foto d’epoca, forse c’erano anche dei nomi! Quante persone sono state sepolte lì e quali erano i loro nomi?

Foto di Valentina Perniciaro

La cancellazione del nome si presenta come l’atto più estremo di cancellazione della persona, che entra nella vita sociale proprio con la scelta che altri fanno di un nome per lei. Un condannato a morte nello stato del Texas dichiarò che la cosa più terribile per lui non era la sedia elettrica ma sapere che sarebbe stato sepolto in una tomba contrassegnata solo con il numero: il 924.

Mentre scendiamo nuovamente verso l’approdo della “madonnina”, scambiamo insieme all’acqua da bere alcune prime impressioni che l’esperienza ci consegna: innanzitutto il modo che hanno le persone che abbiamo incontrato della comunità di Ventotene, di parlare dell’ergastolo. Un modo di parlarne che non mostrifica le persone che vi sono state recluse. Questa modalità culturale è importante da valorizzare, se si considera che la produzione del mostro è il primo passo per la condanna all’ergastolo, e che questa cultura non mostrificante, si esprime in una delle comunità che ha vissuto a stretto contatto con il più antico degli ergastoli. L’altra sensazione che tutti abbiamo è che lì sia importante tornare, non solo come un fatto rituale ma immaginando un lavoro che riesca a ridare i nomi alle persone sepolte. In un certo senso la pratica sociale  per l’abolizione dell’ergastolo è importante che sia  anche retroattiva, che operi perché nessun essere umano possa essere cancellato per sempre  dal consorzio umano, ieri, oggi e per il futuro.

30 giugno 2011                                                                   Nicola Valentino

Per la documentazione fotografica: baruda.net
altri siti: informacarcere.it